La storia
L’ospedale psichiatrico Sant’Antonio Abate di Teramo è stato uno dei più grandi e importanti dell’Italia centro-meridionale. Fu aperto nel 1881, su proposta della Congregazione di Carità, all’interno dell’Ospizio di Sant’Antonio Abate, attivo già dal 1323 e situato nel centro cittadino; nei primi anni fu soprattutto un deposito per diseredati, ammalati, esclusi sociali. Nel 1892, con l’arrivo del direttore Raffaele Roscioli, furono poste le basi per consentire all’asilo teramano di allinearsi alle nuove esigenze della scienza psichiatrica. Il lavoro degli ammalati, insieme alla capacità della Congregazione di Carità di richiamare a Teramo pazienti da altre province, contribuirono a trasformare il manicomio in una struttura di potere economico e amministrativo, tesa a inquadrare il processo di medicalizzazione della follia nell’ottica dei costi e dei profitti.
Le due guerre mondiali rappresentarono degli eventi spartiacque: il manicomio Sant’Antonio Abate accolse numerosi soldati provenienti da tutta Italia e colpiti da alienazione mentale durante il servizio al fronte. A essere segnati dalla guerra furono anche i civili: donne, anziani, profughi manifestarono stati di malessere e depressioni. Le difficoltà belliche si riverberarono negativamente nella stessa organizzazione interna: al sovraffollamento si affiancarono la penuria di personale medico e infermieristico - depauperato dalla chiamata alle armi - il peggioramento alimentare e il degrado dei servizi igienici.
Una svolta importante vi fu con Marco Levi Bianchini, direttore dal 1924 al 1931. Egli raccolse l’eredità di Guido Garbini, alla guida del nosocomio durante gli anni della guerra, e ne sviluppò le intuizioni più felici: affrontò fra il 1928 e il 1931 il problema del sovraffollamento trasportando altrove l’ospedale civile e riservando al manicomio tutto il comprensorio di Porta Melatina, incrementò il lavoro dei ricoverati, incoraggiò nel 1928 l’apertura del primo Dispensario di Igiene mentale, portò a Teramo la psicoanalisi.
Il 7 giugno 1925, infatti, vide la luce, proprio tra le mura del Sant’Antonio Abate, la Società Psicoanalitica Italiana. Durante gli anni del regime, l’ospedale psichiatrico fu inserito tra gli istituti di “medicina politica” promossi dallo Stato fascista per la rinascita della stirpe e la “difesa della razza” e finì per diventare uno dei luoghi in cui attuare la politica di sorveglianza e realizzare gli obiettivi di politica demografica, attraverso l’eliminazione dalla società dei “mediocri della salute, dei mediocri del pensiero e dei mediocri della sfera morale”. A livello terapeutico furono introdotte la malarioterapia, l’insulinoterapia e l’elettroschock.
Gli anni che vanno dal secondo dopoguerra al 1978 furono segnati da una serie di trasformazioni dal punto di vista normativo e assistenziale: nel 1974 vi fu il tentativo di rispondere al sovraffollamento della struttura di Porta Melatina tramite la creazione di un nuovo polo di neuropsichiatria in contrada
Casalena, alle porte della città, dove accogliere i malati di sesso maschile, riservando il complesso originario alle ricoverate di sesso femminile. Nel 1977 erano ricoverati al Sant’Antonio Abate 870 pazienti e vi lavoravano 358 infermieri; in quegli stessi anni iniziarono i primi esperimenti per aprire il manicomio al territorio e annullarne la radice asilare, anche sfruttando le nuove possibilità introdotte dalla legge Mariotti del 1968. Nel 1976, inoltre, fu inaugurata all’interno del Sant’Antonio Abate una comunità terapeutica pensata come reparto aperto, in cui realizzare il superamento delle condizioni di vita subumane in cui versavano molti pazienti lungodegenti.
La successiva legge 180 del 1978 – nota come legge Basaglia – finì di scardinare un sistema assistenziale anacronistico che aveva negato per troppo tempo la dignità degli assistiti e il loro diritto di ricevere cure appropriate. La legge stabilì la dismissione dei vecchi ospedali psichiatrici e la loro sostituzione con strutture ambulatoriali ed assistenziali aperte che garantissero ai malati terapie più efficaci e più accettabili dal punto di vista della dignità umana.